La parola retrospettiva dedicata ad un artista vivente potrebbe far storcere il naso, dopo averci lasciato immaginare un tranquillo ei fu creatore sonnecchiante su una sedia a dondolo. Definire un’esposizione una “retrospettiva” risulta ancor più inappropriato nel caso in cui l’artista si chiami Robert Combas. Quest’ultimo
é assoluta incarnazione del libertario fare in avanti proprio della Figuration Libre, movimento artistico di cui é stato attivissimo membro. In tal caso, sarebbe, secondo chi scrive, più pertinente il termine pro-spettiva, parola che trattiene, almeno per un momento, il combasiano anarchico vitalismo di cui parleremo a breve. Il Mac Lyon, museo d’arte contemporanea di Lione, ospita fino al 15 Luglio 2012 la prima retro-prospettiva (abbiamo infine trovato un compromesso!), dal titolo Greatest Hits, dedicata al suo illustre concittadino. L’artista, nato nel 1957, muove i primi passi nelle Accademie di Belle Arti di Sète e Montpellier per poi
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approdare, nel 1979, in quel gruppo di innovatori che daranno vita alla già citata Figuration libre. Questa corrente, nata sulla scia del Violent Painting tedesco, del Bad Painting americano e dell’italiana Transavanguardia, é stata essenzialmente una “rivendicazione di libertà” che, preferendo i graffiti della metropolitana di New York ai quadri del Guggenheim, si poneva in assoluto contrasto con l’arte concettuale predicante il significato a danno di quelle forme ormai familiari alla massa del viavai metropolitano, nuovo e fondamentale pubblico fruitore d’arte. Proprio sulla forma e sul contenuto tangibile visivamente da tutti si gioca l’immediatezza della pittura di Combas: i soggetti d’arte sono pop, come lo é una rumorosa banda di paese o una scena di vita urbana, i colori eccessivamente carichi, liberamente non armoniosi come irrequieta é l’energia entropica non contenibile in canoni, e il tratto marcato, quasi inciso, grosso e grossolano come lo schizzo di un bambino che scarabocchia il proprio papà o gli eroi dei fumetti. Il messaggio, tutto da interpretare nell’arte concettuale, é per Combas presentato, o meglio “proposto”, chiaramente nell’opera. Non c’é rivelazione, non c’é evento, l’oggetto di comunicazione é qui e, qualora fosse di difficile ricezione, é lo stesso artista ad aggiungere parole didascaliche, alle volte sgrammaticate e frutto di vistose correzioni umorali, all’opera stessa, quasi a guidarci verso quel, e non altro, messaggio proposto. La mostra occupa i tre piani della struttura museale e cronologicamente presenta i primi esperimenti di un Combas, ideatore nel 1979 della rivista “Bato”, affascinato dalle icone su carta del Novecento come Tintin, Tom e Jerry e Topolino che non sono proprietà esclusiva dei loro creatori, ma appartengono a tutti, essendo stati espropriati gioiosamente ed eletti ad archetipo della festosa civiltà dei consumi. L’esposizione, in seguito, si snoda nei meandri di un personale cammino esistenziale tra donne amate, dinamiche rappresentazioni di
battaglie storiche dai tratti comico-grotteschi e più recenti opere d’argomento sacro come L’archange del 1995 o la Vierge nouvelle del 2009. Il vortice creativo dell’artista é di natura anarchico-democratica e si lascia permeare contemporaneamente dall’influenza propositiva delle basse insegne dei negozi africani e orientali di Parigi, ispiratori dal 1977 del cosiddetto periodo del Pop Arabe, sorta di Pop art dei paesi sottosviluppati, e dagli alti classici dell’arte, poi rivisitati come nel caso de Les tournesols de vent Combas del 1990, chiaro tributo ai girasoli di van Gogh. Nel mondo di Combas non c’é fenomenologia interpretativa, non c’é noumeno, ma tutto si esaurisce nella proposta di fenomeno, manifestazione e comunicazione di una vita gridata e strimpellata, di un sentirsi esistente dove l’aggressività del colore e di una nota distorta dalla chitarra elettrica prendono il sopravvento sull’arte da museo incurante di concerti rock. Qui il sudore assume la tinta dei mille colori stroboscopici e le insegne dei quartieri popolari sono un balletto al neon colorato dalla pelle dei colori del mondo. La donna di Combas, lungi dall’essere angelo dalle membra posate sulle chiare, fresche e dolci acque, é totalmente materica, carnale, fautrice di gelosia e che si vorrebbe avere tutta per sé, a metro delle proprie debolezze come l’artista sembra suggerire in Sophie allongée et anthropomorphiée. Quest’opera immediatamente richiama alla memoria la Susanna e i vecchioni del Tintoretto in quanto a bellezza piena, adagiata nello sguardo di chi guarda, ma spiata in segreto, in entrambi i casi, al di là di quella
Les tournesols de vent | Combas, 1990 | Collection Geneviève | Boteilla, Paris. | © Adagp, Paris, 2012 |
siepe che pare limitare i bordi di un’attrazione incontenibilmente troppo umana. Ed é proprio la rappresentazione dell’essere umano in questo tempo che in Combas si traduce in colore e figurazione. Il messaggio veicolato dall’arte combasiana é presto svelato e, allo stesso tempo, colorato dal fermento dell’esistenza: il suo umanesimo si traduce nella vita dinamica, pop-olare e rumorosa di una piazza di periferia, di un bar affollato e nella personale playlist musicale dell’artista trasmessa dagli altoparlanti del museo. Greatest hits é una retro-prospettiva della vita pulsante nelle vene del Combas musicista/performer del gruppo dei Sans pattes e di chi salta e si agita durante un concerto, finalmente libero di colorare come meglio vuole questo mondo dove le forme, e la figurazione delle stesse, sono solo i tratti dei corpi che contengono l’immenso slancio dell’essere uomo che in ogni istante ci martella con quel Run, Run, Run dei warholiani Velvet Underground.
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