Portrait de l’artiste, ©Muhsin Akgn
|
Alzi
la mano chi non sogna Parigi, la città alla quale abbiamo legato
la nostra adolescenziale voglia di libertà condita dal mito del
maledetto , foss'egli poeta od artista dei colori. E in un'atmosfera
onirica, che tradiva reminiscenze proprie della bohème di Montmartre
o Montparnasse, abbiamo partecipato alla Nuit des Musées, tenutasi
il 15 Maggio. In questa serata, la capitale francese lascia la porta
socchiusa e noi, senza rose, ma con i riguardi che si devono ad una
vecchia signora, quella soglia l'abbiamo timidamente varcata. Tra le
mille pièces d'itinerario che la città offre, abbiamo scelto il
Museo Georges Pompidou, dove da sempre avanguardia e moderno si
contaminano. Qui avevamo un rendez-vous molto particolare, un
appuntamento con Sarkis e la sua esposizione Passages. Passaggi, al
quale potremmo aggiungere parigini saldando così il debito nei
confronti di Walter Benjamin, è il titolo di questa esposizione che
si snoda in quella permanente dell'intero complesso museale. Dei
sette luoghi reinterpretati, che vanno dalla Biblioteca Wassily
Kandisky a quella Renard passando per l'Atelier Brancusi e i vari
livelli del Pompidou, ci limitiamo, forse arrogantemente, a riportare
una cronaca d'emozione riguardo solo due aree che , forse, permettono
di meglio comprendere il senso del fare di questo artista turco
trapiantato a Parigi. Tema centrale della riflessione pragmatica di
Sarkis è la Memoria, quel continuum di ricordi eterogenei e
frammentati che permettono di tessere ciò che è la coscienza
collettiva di un'etnia o di un semplice gruppo di persone.
Estremamente esplicativa è parsa l'installazione presente nella Sala
19, quella del Muro dell'Atelier di Andrè Breton, dove sono presenti
alcuni oggetti appartenuti al vate del surrealismo con i quali Sarkis
dialoga a distanza tramite la sua Vitrine des Innocents. Qui, in una
vecchia bacheca, l'artista custodisce un'accozzaglia (mi si perdoni
il termine poco riguardoso, ma cos'è la memoria se non un intreccio
di pensieri che si penetrano cozzando?) di oggetti provenienti dalla
sua collezione personale come statuette indiane, un cranio di
coccodrillo risalente a milioni d'anni fa, figurine raffiguranti
personaggi del Signore degli Anelli di Tolkien e recipienti con
tracce di pigmenti. Quel coacervo d'oggetti trova ragion d'essere, e
d'ordine, grazie ad un neon blu posto al centro dell'opera che
rappresenta il nervo ottico dell'artista, facoltà gestaltiana che
tutto compone e tutto sistema dando così al reale una parvenza di
credibiltà utilitaristica. Sarkis definisce questi oggetti un tesoro
di guerra, un KRIEGSSCHATZ, appartenente all'umanità tutta perché:
"Tutto quello che ho vissuto [Sarkis] qui c'è. La storia è
tuttavia come un tesoro. Ci appartiene. Tutto quello che è successo
nella storia ci appartiene. Tutto quello che si è fatto attraverso
l'umanità nel dolore come nell'amore, è in noi ed è il nostro più
grande tesoro". Semplicemente Illuminante. Ciò che l'artista
definisce tesoro è il bottino della guerra che ci chiama in ogni
momento alle nostre postazioni di soldati, lo scontro che anima la
Storia, la nostra vita vissuta. E gli oggetti, ai quali e nei quali
leghiamo momenti del nostro vivere, sono frammenti di noi uomini
affidati alla materia o meglio materializzazione di schegge del
nostro cogito che appena afferra una cosa - la sente, è sua- subito
si svuota per via di quella sete di nuove conoscenze e nuove sfide.
Profondamente umano è quindi il collezionare cose, ritrovando in
quelle momenti di vita trascorsi, attimi già cancellati dal cogito
sempre cogitans. L'oggetto investito dal ricordo parla, narra, grida
o sussurra, è un libro, senza postfazione, infinitamente aperto alla
contaminazione della relazione col presente. D'altra parte il libro,
da sempre, è icona della memoria, come la biblioteca lo è dello
Spirito di un popolo; quando una di queste viene dilaniata dalle
fiamme appare chiaro il senso di perdita che assale l'umanità tutta.
Un identico sgomento accomunò gli uomini quando si sparse la voce
della distruzione della biblioteca d'Alessandria e quella delle bombe
che polverizzarono, in tempi recenti, quella di Sarajevo. Proprio
quest'ultimo è l'avvenimento interpretato da Sarkis in "La robe
de Een overnachting op Oud-Amelisweerd" dove un abito, la robe,
dialoga con una foto dell'edificio della capitale bosniaca in uno
scambio di significati non troppo velato. La trasmissione del sapere,
garantita dalle biblioteche, è realmente habitus di un popolo che
senza memoria è nudo, cancellato, gasato e ridotto al Silence, come
recita l'icona al neon posta all'ingresso dell'opera La chambre.
Tutto è dialogo, non ci sono barriere nazionali, temporali o
culturali, tutto si riflette nel tutto come l'umanità si riflette in
ogni singolo uomo. Quello di Sarkis è un messaggio anarchico,
globalizzato, che ben si piega ad interpretazioni d'altro genere. Il
tesoro dei tempi contemporanei non è solo fatto di oggetti
palpabili, ma anche e soprattutto di realtà virtuali, di scambi di
dati tra internauti che tendono a formare un unico cervello global
con milioni di mani che usano milioni di mouse. Questa interazione
tra utenti, connessi da ogni capo del mondo, andrebbe sempre più
incrementata e garantita sancendo finalmente l'importanza del diritto
all'accesso alla Rete al pari del medioevale habeas corpus. Così
facendo potremmo realmente porre ogni nuovo tesoro condiviso nella
grande vetrina dell'Umanità oltre i limiti che il concetto di
nazione e razza ancora impongono al mondo degli oggetti reali.
La Vitrine des Innocents, 2005-2007, © Adagp, Paris 2010
|
Nessun commento:
Posta un commento