Buona lettura!
Prendete un'architettura industriale
reinventata ad open space espositivo e piazzateci installazioni che
scavano l’anima: benvenuti alla Fondazione Arnaldo Pomodoro, in
scena c’è la personale della polacca Magdalena Abakanowicz.
L’artista, settantenne all’anagrafe, ma “pascoliana” d’animo,
dona forma ad emozioni figlie di un secolo, il novecento,
imbastardito dal nichilismo e dal pensiero totalitarista.
Orgogliosamente radicata in Polonia pur essendo girovaga per
mestiere, l’Abakanowicz dà forma alle angosce che hanno abitato
l’Io del “secolo breve” utilizzando materiali poveri, come
Black Environment (Abakan), 1970-1978
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nylon o tela, e di scarto come i fili
d’acciaio reperiti sulle rive della Vistola. Acciaio inossidabile,
appunto, come inossidabile è l’esperienza che ti incide la carne.
I due sostantivi e una preposizione,
Abakan Red, 1969 e Abakan Orange, 1971
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Space to experience, che vanno a
comporre il titolo della personale, hanno una tale forza semantica
che basterebbero da soli a riempire gli spazi della Fondazione. Il
puro spazio, le vide, si fa contenitore d’esperienze. Ed eccolo lì
il percorso esistenziale dell’artista polacca. La sua personale
ricerca interiore, sorta di fenomenologia dell’emozione, fu
naturalmente invisa al regime Polacco, foriero di miti già
preconfezionati. La Abakanowicz opponeva al culto dello Stato e alle
ideologie totalitarie, un’arte della materia fallace e precaria,
quasi impalpabile come il dubbio che si insinua tra le crepe
dell’acciaio ben saldato. E gli spiriti liberi, si sa, del dubbio
ne fanno ali, ma i regimi a queste preferiscono il passo dell’oca
di chi non si cura della propria ombra. Censurata, la Abakanowicz
lavora in spazi angusti, scantinati dove anche la luce solare stenta
ad entrare. Ma la costrizione ad un’esistenza afona produce il
nettare più dolce: quello della creatività umana. Cos’è un’opera
d’arte se non il prodotto di un cuore costretto da una gabbia
troppo opprimente? E la gabbia toracica della Abakanowicz, muro di
carta velina per un’anarchica di sentimenti come lei, è esplosa
partorendo opere che, nei luoghi della rassegna, sono lì,
semplicemente lì. Queste, sono readymade spiattellate in faccia allo
spettatore, specchi emozionali che ti avvolgono in un abbraccio caldo
e vellutato, insomma, vissuto. Nella mostra, in ordine esperenziale
d’entrata, si è subito coivolti nel flusso vitale di un’opera
come Embriology. L’installazione è composta da una serie
Embryology, 1978- 198
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di elementi dalla forma di giare in
tela, garza di cotone o corde di canapa.
Mutants, 2000
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Materiali, quelli, utilizzati dai
mercanti di granaglie per proteggere il loro “segreto”, in quel
caso commerciale, facilmente deperibile e soggetto a furti.
Embriology è rappresentazione del fluire della vita prenatale
passando per vari gradi d’evoluzione, dall’embrione al feto. È
una cascata di abbozzi di vita la cui reciproca lotta per la
fecondazione crea esistenze degne di esperire sensazioni e, dunque,
esperienze. Questa vita preziosa ed accennata a livello embrionale
prende poi le forme, animalesche ed umanoidi, delle statue adiacenti
saldate a vista, in acciaio inossidabile. Esse rappresentano ancora
la vita in fieri: forme sì d’acciaio, ma ancora malleabili dal
calore della fornace. Un percorso che dal germe della vita conduce
alla piena maturazione del sé passando dalla scoperta della propria
sessualità, rappresentata da Black environment. L’opera, composta
da bozzoli di foglie di agave, è una serie di gusci protettivi che
custodiscono il segreto della scoperta dei piaceri della carne più
esplicitamente richiamati da Abakan Red, sorta di riproposizione di
un gigantesco sesso femminile. È, quella della propria intimità,
una rivelazione da preservare da chi, sempre desideroso di possesso,
ha unghie affilate per ghermire i vagiti dell’Es. Il proprio
spirito animale, strattonato da qualsiasi morale, è da porre quindi
sotto chiave magari in gigantesche armature come quelle presentate in
coppia ed intitolate Armour. La Abakanowicz ha impresso sulla pelle
il marchio di chi la vita l’ha vissuta e ben conosce gli orrori
originati dai totalitarismi che, sulla scia del pensiero di Adorno,
sostanziano anche i nostri attuali sistemi morali ed economici. Ecco
la sagoma dell’uomo contemporaneo solo e individualista: una figura
in ceramica dotata di gambe, ma priva di viso e braccia. Diverremo, o
forse lo siamo già, Mutants – Mutanti, come le sei figure che
chiudono il percorso dell’esposizione. Non uomini post-fisici
integrati dalla tecnologia, ma mezzi uomini e mezzi animali,
replicanti che, disposti a semicerchio come effettivamente lo sono
nella mostra, scrutano, si consultano a bassa voce e minacciano chi
ha ancora in caldo i propri segreti e la propria libera
individualità. Nell’epoca dei Mutanti non c’è tolleranza per
chi custodisce segreti in giare, ciò che non è pubblico
semplicemente non esiste.
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