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lunedì 17 marzo 2014

L'anima e le sue corrispondenze: il parigino Kandinsky al Palazzo Reale di Milano

Articolo apparso su http://azzurramagazine.wordpress.com/ 


Il Palazzo Reale di Milano ospita, fino al 27 Aprile, una vasta summa delle opere di Vassily Kandinsky, teorico e padre della pittura astratta. Le opere esposte provengono dal parigino Centre Pompidou, erede della più grande collezione di opere del maestro russo per volontà di sua moglie Nina che decise di donarle, in polemica col regime sovietico. La mostra milanese presenta un'ampia selezione delle opere dell'autore de Lo spirituale nell'arte, poste in ordine cronologico. Abbiamo i primi lavori degli esordi in Russia e Germania, dove Kandinsky insegna alla scuola del Bauhaus, su invito di Walter Gropius, fino a chiusura avvenuta nel 1933 da parte dei nazisti, per poi arrivare ai lavori creati a Parigi, città dove troverà la morte nel 1944.
Tra le opere, un posto di rilievo spetta a Akzent in Rosa (Accento in rosa) del 1926 e, soprattutto, alla celeberrima Gelb-Rot-Blau (Giallo-Rosso-Blu), creata nel 1925, ai tempi del Bauhaus. Innanzitutto, occorre precisare che l'arte di Kandinsky é, come direbbe Leonardo, cosa mentale, o meglio, emozionale. I protagonisti assoluti della sua opera sono la forma geometrica e, soprattutto, il colore per le sue corrispondenze musicali ed emozionali che instaura con lo spettatore. Scopo dell'arte di Kandinsky é creare una sorta di studiato rapporto psicologico tra il fruitore e l'opera stessa. L'astrattismo di Kandinsky emoziona in quanto fa vibrare le corde dell'anima umana che si lascia eccitare, per esempio, dal giallo, colore folle e squillante come una tromba, dal rosso, colore intenso e sanguigno, dal blu, tinta della quiete celeste e dal suono violoncello. L'opera del maestro russo puo', quindi, essere interpretata come una psicologia su tela, colorata e geometricamente, a volte, definita, dove tutto corrisponde con le emozioni della nostra anima. Riscoprire la propria anima emozionale é lo scopo di Kandinsky. Anima "inutile", parte oscura dell'età adulta e sapientemente censurata e ricacciata nell'oblio dall'imposto tran tran quotidiano.
A proposito, é opportuno ricordare che Kandinsky fu inserito nella lunga lista degli artisti degenerati, lista di proscrizione dal mondo dell'Arte redatta, nel 1937, dal Partito Nazista che doveva preservare i canoni della purezza ariana. Perché? Perché forse l'uomo nuovo del regime totalitario, macchina-soldato docile e ubbidiente, doveva essere forte, puro, senza macchia (di colore), non doveva lasciarsi emozionare dalle tinte e dalle forme, non doveva corrispondere con loro, scoprendo magari cosi' la debolezza e la bellezza di rivelarsi un essere senziente, indefinito, la cui sola missione é il sentirsi vivo rimpiendosi gli occhi di blu, giallo e rosso.

Marco Caccavo


Vassily KandinskyGelb‐Rot‐Blau (Giallo‐Rosso‐Blu)1925Olio su tela, cm 128 x 201,5Donazione Nina Kandinsky, 1976Philippe Migeat ‐ Centre Pompidou, MNAM‐CCI© Centre Pompidou, MNAM‐CCI / Philippe Migeat / Dist.RMN‐GP© Vassily Kandinsky by SIAE 2013

Vassily KandinskyAkzent in Rosa (Accento in rosa)1926Olio su tela cm 100,5 x 80,5Donazione Nina Kandinsky, 1976Service de la documentation photographique du MNAM ‐Centre Pompidou, MNAM‐CCI© Centre Pompidou, MNAM‐CCI / Philippe Migeat / Dist.RMN‐GP© Vassily Kandinsky by SIAE 2013

Andy Warhol, essere é consumare per quindici minuti

Articolo apparso su http://azzurramagazine.wordpress.com/ 


"Non pensare di fare arte, tu falla e basta. Lascia che siano gli altri a decidere se é buona o cattiva, se gli piace o gli faccia schifo. Intanto, mentre gli altri sono li' a decidere tu fai ancora più arte".

Poche frasi, queste, per sintetizzare un percorso di vita e d'arte. Stiamo parlando del pensiero di Andy Warhol, gigante rivoluzionario dell'Arte del XX secolo, di cui il Palazzo Reale di Milano ha esposto pregiati pezzi fino al 9 di Marzo. É vero che Warhol é presente in tutti i più importanti musei del mondo, ma quella di Milano é stata, per cosi' dire, un'esposizione particolare. Infatti, le opere in mostra erano quelle appartenenti alla Brant Foundation, collezione di Peter Brant, intimo amico dell'artista e ventenne acquirente, nel 1967, della prima opera del padre della Pop Art: quel disegno che renderà la Campbell's soup emblema della società dei consumi e della riproduzione sempre eguale a se stessa. La mostra milanese si apre con una sala dove, con sapienti giochi di luce e musica, lo spettatore é immediatamente immerso nell'atmosfera della New York anni '60, con musica dei Velvet Underground, gruppo capitanato da Lou Reed, e immagini della Factory, atelier/fucina della Pop Art. Proseguendo, l'esposizione si dirama tra varie sale dove sono esposte le opere che rendono famoso il marchio Warhol nel mondo: dalle Campbell's soup ai ritratti serigrafati di Mao Tse-tung o di Liz Taylor, dai modelli di calzature femminili disegnati da Warhol, passando per le installazioni di recipienti Kellog's, alle riproduzioni del Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Ma perché una mostra su Warhol? Warhol é, oggi, più attuale che mai. Infatti, la democratizzazione dei consumi ci rende sempre più Pop, ovvero Popolari, attori del consumo sempre giocanti tra poli attrattivi e di repulsione. Oggi, tutto é Pop: il quotidiano é Pop, Mao é pop, mangiare un hamburger é Pop. La routine contemporanea, quindi, é arte? Nell'epoca Pop, si! Utilizzando una celebre espressione di Warhol, tutto é arte per quindici minuti, giusto il tempo, aggiungiamo noi, del colpo d'occhio, della fruizione, della digestione (dell'hamburger) e tutto torna nella norma. O no? Tuttavia, a ben vedere, no; infatti la società dei consumi é formata dalla somma di più quindici minuti. Immaginate voi stessi immersi in un turbine di pubblicità a led colorati, maxi schermi, negozi, gentili commessi e taxi veloci. Tutto questo dura quindici minuti...ma, terminati questi, già siamo polarizzati verso altra luce, verso altro vivido colore, rimangiamo un altro hambuger, acquistiamo altre calzature, tutto ritorna, ancora, per quindici minuti. Quindici minuti é, allora, il tempo di ogni opera d'arte Pop, della fama, dell'oggetto di consumo. La nostra società dura quindici minuti: siamo celebri per quindici minuti perché siamo consumatori Popolari. Quindi, la nostra esistenza é legata al consumo, in un dato tempo, di un prodotto? Nella società Pop, questo il messaggio di Warhol, parebbe di si'.

Marco Caccavo



Andy Warhol
Blue Shot Marilyn
1964
Collezione Brant Foundation
© The Brant Foundation, Greenwich (CT), USA
© The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc. by SIAE 2013


Andy Warhol
Campbell’s Soup Can (Chicken With Rice)
1962
Collezione Brant Foundation
© The Brant Foundation, Greenwich (CT), USA
© The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc. by SIAE 2013

domenica 17 giugno 2012

Robert Capa e Gerda Taro, due giocatori d’azzardo nati per la puntata massima




Ecco un mio vecchio articolo sul fotoreporter Robert Capa


Due occhioni beffardi di quelli che ti penetrano l’anima, il capello
spettinato e lo sguardo intenso di chi con la morte ci gioca a dadi.
Essenziale e profonda, come i suoi scatti, era la fisionomia di Robert Capa, probabilmente il più famoso fotoreporter del ventesimo secolo. In mostra fino al 21 giugno al milanese Spazio Forma, l’esposizione, intitolata “This is War”, raccoglie le migliori istantanee del fotografo nel decennio tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Strutturata come un ideale dialogo per immagini con Gerda Taro, di cui si presentano i reportage della guerra di
Spagna, la rassegna è un omaggio all’opera dei due fotogiornalisti, ma anche alla travolgente passione amorosa che li unì. Entrambi di origine ebrea, costretti dalle leggi razziali al ruolo di “gitani con la macchina fotografica”, si incontrarono a Parigi nei primi anni trenta, probabilmente in uno dei tanti caffè che animavano la bohème di Montparnasse. Dopo forse uno scambio di sguardi, di quelli che ti fotografavano l’anima, come li avrebbe definiti John Steinbeck, i due decisero di intrecciare i propri destini e la propria passione: rivelare la verità del mondo attraverso le loro
macchine fotografiche. Nel 1936 la giovane coppia, scossa dalle notizie che arrivavano dalla Spagna, si precipita in Catalogna documentando, per la rivista francese "Vu", gli orrori della guerra civile. Tra gli scatti presenti nelle sale, che ritraggono militari all’assalto o soldatesse in un raro momento di riposo, il posto d’onore è riservato alla celeberrima foto di Capa “The falling
soldier”, il miliziano colto nell’impercettibile attimo in cui viene colpito a morte dai franchisti. La foto, che pare innestarsi sul filone del ciclo dei “Disastri della guerra” di Goya, diverrà immediatamente “l’immagine” del conflitto spagnolo ricordando come, molto spesso, la Libertà esiga la vita da coloro che la difendono. Tuttavia, a cadere in quegli anni, non furono
soltanto soldati, ma anche intellettuali e giornalisti come Gerda Taro, uccisa da un cingolato nel 1937. Morta appena ventisettenne, la compagna di Capa, grazie all’obiettivo della sua Rollei, aveva immortalato le prime donne-soldato che, ora, reclamavano il proprio posto nella Storia al pari degli uomini. Ricca di manoscritti e documenti, l’esposizione meneghina sfoggia, inoltre, le stampe delle foto più celebri di Robert Capa come gli scatti effettuati durante gli ultimi giorni della seconda guerra mondiale o quelli del conflitto cino-giapponese. Su tutti spicca l’istantanea, “leggermente fuori fuoco”, del soldato alleato accucciato nelle acque di Moha Beach, la spiaggia del D-Day. Proprio per il suo essere sfocata, l’immagine trasmette, quasi per osmosi, la trepidazione e il furore dei soldati,
giovani protagonisti di quell’inferno fatto di uomini che cadevano, ormai cadaveri, tra strazianti urla d’aiuto. Le tragedie di cui Capa fu testimone non scalfirono, tuttavia, la sua radicale fiducia nell’uomo e il particolarissimo senso dell’umorismo che lo distingueva. Ironia, la sua, a volte tragicomica come quando scrisse alla madre, in apprensione durante i giorni dello sbarco in Normandia, una lettera con un incipit memorabile: "Durante il DDay qualcuno ha visto galleggiare il mio corpo nell'acqua. Spero che se mi debba mai capitare una cosa simile, preferirei piuttosto galleggiare nel
whisky". Robert “Bob” Capa di certo non riuscì a galleggiare nel whisky, ma fu in grado di tenersi a galla nelle situazioni più rischiose ripetendo a se stesso la regola deontologica che s’era dato: "Il corrispondente di guerra ha in mano la posta in gioco, cioè la sua vita, e la può puntare su questo o quel cavallo, oppure rimettersela in tasca all'ultimo minuto. Io sono un giocatore d'azzardo”.
Spirito non adatto ad una vita in poltrona e pantofole, giocatore lo fu fino all’ultimo, quando, nel 1954, durante un reportage in Indocina, si inoltrò in un campo minato dal quale non tornò mai più vivo. Un’ultima incoscienza o forse solo il desiderio di andare a fotografare gli dei.

sabato 10 dicembre 2011

Il cuore dell’Abakanowicz alla Fondazione Pomodoro


Ecco il mio primo articolo pubblicato sul numero 198  di D'Ars, giugno 2009.
Buona lettura! 


Prendete un'architettura industriale reinventata ad open space espositivo e piazzateci installazioni che scavano l’anima: benvenuti alla Fondazione Arnaldo Pomodoro, in scena c’è la personale della polacca Magdalena Abakanowicz. L’artista, settantenne all’anagrafe, ma “pascoliana” d’animo, dona forma ad emozioni figlie di un secolo, il novecento, imbastardito dal nichilismo e dal pensiero totalitarista. Orgogliosamente radicata in Polonia pur essendo girovaga per mestiere, l’Abakanowicz dà forma alle angosce che hanno abitato l’Io del “secolo breve” utilizzando materiali poveri, come
Black Environment (Abakan), 1970-1978
nylon o tela, e di scarto come i fili d’acciaio reperiti sulle rive della Vistola. Acciaio inossidabile, appunto, come inossidabile è l’esperienza che ti incide la carne. I due sostantivi e una preposizione,
Abakan Red, 1969 e Abakan Orange, 1971
Space to experience, che vanno a comporre il titolo della personale, hanno una tale forza semantica che basterebbero da soli a riempire gli spazi della Fondazione. Il puro spazio, le vide, si fa contenitore d’esperienze. Ed eccolo lì il percorso esistenziale dell’artista polacca. La sua personale ricerca interiore, sorta di fenomenologia dell’emozione, fu naturalmente invisa al regime Polacco, foriero di miti già preconfezionati. La Abakanowicz opponeva al culto dello Stato e alle ideologie totalitarie, un’arte della materia fallace e precaria, quasi impalpabile come il dubbio che si insinua tra le crepe dell’acciaio ben saldato. E gli spiriti liberi, si sa, del dubbio ne fanno ali, ma i regimi a queste preferiscono il passo dell’oca di chi non si cura della propria ombra. Censurata, la Abakanowicz lavora in spazi angusti, scantinati dove anche la luce solare stenta ad entrare. Ma la costrizione ad un’esistenza afona produce il nettare più dolce: quello della creatività umana. Cos’è un’opera d’arte se non il prodotto di un cuore costretto da una gabbia troppo opprimente? E la gabbia toracica della Abakanowicz, muro di carta velina per un’anarchica di sentimenti come lei, è esplosa partorendo opere che, nei luoghi della rassegna, sono lì, semplicemente lì. Queste, sono readymade spiattellate in faccia allo spettatore, specchi emozionali che ti avvolgono in un abbraccio caldo e vellutato, insomma, vissuto. Nella mostra, in ordine esperenziale d’entrata, si è subito coivolti nel flusso vitale di un’opera come Embriology. L’installazione è composta da una serie 
Embryology, 1978- 198
di elementi dalla forma di giare in tela, garza di cotone o corde di canapa.
Mutants, 2000
Materiali, quelli, utilizzati dai mercanti di granaglie per proteggere il loro “segreto”, in quel caso commerciale, facilmente deperibile e soggetto a furti. Embriology è rappresentazione del fluire della vita prenatale passando per vari gradi d’evoluzione, dall’embrione al feto. È una cascata di abbozzi di vita la cui reciproca lotta per la fecondazione crea esistenze degne di esperire sensazioni e, dunque, esperienze. Questa vita preziosa ed accennata a livello embrionale prende poi le forme, animalesche ed umanoidi, delle statue adiacenti saldate a vista, in acciaio inossidabile. Esse rappresentano ancora la vita in fieri: forme sì d’acciaio, ma ancora malleabili dal calore della fornace. Un percorso che dal germe della vita conduce alla piena maturazione del sé passando dalla scoperta della propria sessualità, rappresentata da Black environment. L’opera, composta da bozzoli di foglie di agave, è una serie di gusci protettivi che custodiscono il segreto della scoperta dei piaceri della carne più esplicitamente richiamati da Abakan Red, sorta di riproposizione di un gigantesco sesso femminile. È, quella della propria intimità, una rivelazione da preservare da chi, sempre desideroso di possesso, ha unghie affilate per ghermire i vagiti dell’Es. Il proprio spirito animale, strattonato da qualsiasi morale, è da porre quindi sotto chiave magari in gigantesche armature come quelle presentate in coppia ed intitolate Armour. La Abakanowicz ha impresso sulla pelle il marchio di chi la vita l’ha vissuta e ben conosce gli orrori originati dai totalitarismi che, sulla scia del pensiero di Adorno, sostanziano anche i nostri attuali sistemi morali ed economici. Ecco la sagoma dell’uomo contemporaneo solo e individualista: una figura in ceramica dotata di gambe, ma priva di viso e braccia. Diverremo, o forse lo siamo già, Mutants – Mutanti, come le sei figure che chiudono il percorso dell’esposizione. Non uomini post-fisici integrati dalla tecnologia, ma mezzi uomini e mezzi animali, replicanti che, disposti a semicerchio come effettivamente lo sono nella mostra, scrutano, si consultano a bassa voce e minacciano chi ha ancora in caldo i propri segreti e la propria libera individualità. Nell’epoca dei Mutanti non c’è tolleranza per chi custodisce segreti in giare, ciò che non è pubblico semplicemente non esiste.