Translate!

lunedì 24 febbraio 2020

Coronavirus, 2 o 3 cose che ho imparato di te


Al netto di ogni considerazione di ordine scientifico dinanzi le quali si dovrebbe sospendere il giudizio e attenersi alle direttive ministeriali, non è possibile negare che la paura scaturita dalla rapida diffusione del contagio ha messo radici nell’intimo dell’immaginario collettivo. Diffidenza, esagerazione e faciloneria, spesso veicolate da media più interessati, loro, ad essere più virali del virus stesso, arrivano al parossismo quando ci si rende conto che, alla fine, non si sa cosa pensare di questo virus. E al facile allarmismo o anche all’eguale facile minimizzazione si sostituisce un vero e proprio imbarazzo del giudizio.
Siamo realmente agli inizi di una pandemia che mette in dubbio la nuova divisione del lavoro incentrata sulla mondializzazione, con tutto quello che ne consegue, o siamo semplicemente dinanzi a un’influenza un po’ più aggressiva?
La questione tocca realmente un nodo fondamentale della democrazia: “il conoscere per deliberare” di einaudiana memoria.
Come si sa, il conoscere è conseguente al giusto informare. Nelle democrazie mature la verità dell’informazione è data dalla pluralità e dall’assenza della censura di Stato. Piena libertà d’espressione che in Italia è garantita ed esercitata. Anche se con sfumature più o meno marcate, una rapida scorsa ai principali organi di stampa non permette di distinguere una reale pluralità di opinioni. Effettivamente, i giornali sembrano tutti ripetere la stessa cosa: paura e pandemia.
Le edizioni online dei principali quotidiani nazionali si affrettano a fare la conta dei decessi (per ora 6) e dei casi sospetti (per ora 229) in link condivisi senza sosta da milioni di account in una logica che ricorda il conta punti dei videogame. Ci si attende che il numero cresca...quasi che l’aumentare del numero di eventuali contagiati rassicuri chi non sa cosa fare o pensare. Se aumentano i decessi e i pazienti sotto osservazione, allora qualcosa c’è. Certo, che qualcosa ci sia è chiaro, ma in che modo questo qualcosa, questa idea, entra nel nostro quotidiano?
Al di là delle cifre, seppur gravi, inerenti decessi e contagiati, il virus è entrato nel nostro mondo perché fa parlare di sé e fa parlare di noi. È diventato l’argomento del momento e ci dà la possibilità di essere le persone del momento, come qualche giorno fa lo era la III Guerra mondiale scatenata dalla probabilità (pari a 0) di un attacco dell’Iran agli USA, come ancor prima lo era la probabile (ancora pari a 0) guerra tra USA e Corea del Nord. Insomma, il Coronavirus ha infettato il nostro comunicare per hashtag: dire qualsiasi cosa purché la si dica, purché se ne parli. Il dire, quindi, come forma di appartenenza ad un gruppo, per condividerne le angosce e rassicurarsi. Soprattutto quando il gruppo vittima è ben distinto dal gruppo colpevole avendo questo gli occhi a mandorla.
Interessante pare l’estrema fragilità esistenziale dell’uomo post-moderno che viene continuamente rassicurato fin dalla nascita perché tutto è sotto controllo in una società “perfetta” e “creata per noi”. E invece, in questo stesso mondo, un virus venuto da lontano, da un paese “sporco”, si incunea nella nostra sicurezza facendo riaffiorare la paura della morte improvvisa e inspiegabile. Facendo riemergere il mistero della vita che nasce per caso e che muore nella stessa maniera. Quasi che le pandemie siano veicoli di filosofia per le masse. Quasi che “la peste” riporti alla luce domande esistenziali sotterrate a colpi di acquisti, di divertimento take away e di finzioni societali ed economiche costruite per rassicurare. Anche se sotto forma di fake news e di allarmismi, la domanda che oggi si impone pare essere: “quindi si muore?”, “è possibile in quest’epoca perfetta morire?”. “E se si muore, come si muore?”.
Il morire, o almeno il morire in questa maniera, diventa una cosa assurda perché non prevista. O almeno non prevista dalla pubblicità o dall’algoritmo che scruta e comanda le nostre scelte da vivi.
E se il Coronavirus fosse un’occasione di riflessione sulla vita che si sostanzia nella possibilità di contrarre una malattia eventualmente mortale?
Prendere come possibilità la morte, assurda e violenta, forse sarebbe una possibilità di un vivere meno pre-ordinato, di quel vivere per morire base di partenza di quasi tutta la filosofia. Perché, effettivamente, oggi tendiamo a scartare la morte come eventualità che pure è fondativa. Non si deve più morire per vivere. L’Io deve essere sempre e comunque vivente e per sopravvivere deve consumare, seguire logiche societali, di natura economica, escludendo i tempi morti, la riflessione, il prendersi il tempo per sé, escludendo le distanze perché quel che non si vede è morto, non esiste. Bisogna comunicare per non morire, si deve postare, fotografare, scrivere, parlare e straparlare per dire agli altri che si è vivi. Una sorta di mantenimento in vita tramite la connessione ad altri cadaveri che non vogliono morire per vivere. Come se la vita fosse un susseguirsi di azioni meccaniche pre-inquadrate in un percorso circolare dove la fine non esiste o al massimo è un profilo facebook dove anche da morto continuo a essere taggato e, mio malgrado, continuamente riportato in vita. Senza chiedermi il permesso. Senza lasciarmi morire in pace.
Inoltre, il Coronavirus sembra riassumere quello che, in una certa maniera, alcuni politici aspettavano: un distruggere per ripartire in un certo modo, un distruggere per poi distinguere. Effettivamente, per coloro che vogliono distruggere il mondo globale il Coronavirus è un aiuto insperato. Chiudere (le frontiere), bloccare (ognuno a casa propria), separare (i buoni dai cattivi), confinarsi (in casa dinanzi la televisione), tutti verbi che sembravano appartenere al secolo scorso adesso hanno un motivo valido per riaffiorare perché “ne va della nostra vita”, “del nostro avvenire”, “ne va della sopravvivenza del gruppo” (anche whatsapp o facebook).
E l’idea che chiunque possa essere un eventuale untore è anche una manna dal cielo per coloro che spingono per la totale de-umanizzazione delle relazioni a favore dell’esclusivo rapporto col virtuale. A dire il vero, il Coronavirus è anche il virus perfetto per la post-modernità della new economy perché privilegia le relazioni tra uomo e macchina (come si evince dal boom degli acquisti online di questi giorni) rendendo quindi inutile l’interazione tra esseri viventi. Una eventuale epidemia, quindi, legittimerebbe le frontiere tra comunità, ma anche tra membri dello stesso gruppo perché il pericolo è un virus che non si vede e non un tratto etnico o comportamentale distintivo.
Quest’isteria generalizzata e la diffidenza nei confronti del prossimo sono forse le naturali conseguenze del far parte di una società che, da un lato, ci promette una felicità da ostentare su internet e che, dall’altro, ci rende angosciati e, di fatto, soli.
Uno scatto di umanità collettiva, di fiducia, di ottimismo, malgrado le epidemie e le differenze, sarebbe davvero una risposta efficace al virus e un bel ripartire perché i virus passano, il restare umani no.



Aix-en-Provence, 24 Febbraio 2020




mercoledì 12 febbraio 2020

“Fare il proprio tempo”, farsi opera per abitare la memoria


“Faire sont temps” (fare il proprio tempo) è la retrospettiva consacrata all’opera di Christian Boltanski che fino al 16 marzo occuperà il quarto piano del Centre Pompidou di Parigi. 
Ideata come opera unica e continuativo flusso di memoria, la mostra si compone di oggetti e simulacri delle vite di Boltanski e degli altri.  L’esposizione, come direbbe Joseph Beuys, “entra lo spettatore” in uno spazio “sacro”, segnato da un “départ” e un “arrivée”; qui il fruitore ripercorre il “proprio tempo degli altri” riflettendo sul suo sistema di oggetti memoriali e creando inconsciamente il proprio museo per ingressi a venire. 
Tema centrale, e nodo cruciale dell’interrogarsi artistico di Boltanski, è, infatti, la Memoria. Questa si fa oggetto-testimone vivo che, se messo sotto teca e quindi musealizzato, diventa presenza muta e aperta sul possibile in virtù dell’ontologica difficoltà interpretativa. 
Nella sua doppia dimensione memoriale, personale e collettiva, di matrice ricoeuriana, il percorso offerto da  Boltanski permette di umanizzare l’anonimato del “si muore” tramite un’esclusiva archeologia dell’oggetto-ricordo, confuso e precario, che, con la sua presenza  fuori tempo e contesto,  rende vivo il ricordo perché dimenticato.
Effettivamente, l’interesse della mostra risiede anche nella debolezza dei codici interpretativi a disposizione dello spettatore-archeologo. Questo perché l’esercizio di  memoria risulta essere per lo spettatore una libera interpretazione associante il proprio vissuto biografico all’insieme dei presenti a cui la memoria rimanda. 
Tra fotografie, indumenti, veli che ricordano impressioni di sindone, lampadine che rammentano la fragilità del vivere e scatole-reliquari che sigillano il pieno non visibile, la presentazione di Boltanski è soprattutto invito alla trasmissione del proprio tempo, alla sua connessione coi tempi degli altri. “Fare il proprio tempo”, dunque, affinché il tempo venga raccontato, affinché ognuno di noi possa aver diritto al proprio memoriale, alla propria teca di oggetti in disordine e quindi al proprio gioioso oblio interpretativo. 
Se è vero che ogni arte è nel tempo, pare tuttavia che la pratica artistica di Boltanski sia anch’essa soggetta alla temporalità come, d’altra parte, sostiene lo stesso artista quando afferma: “prima ricevevo lettere, oggi ci sono le mail”. Probabilmente, Boltanski allude a una memoria, quella numerica, che sfugge alla sua pratica di artista che vive i “tempi supplementari” della vita.
L’attuale numerizzazione della memoria alle quale affidiamo il nostro museo-memoriale produce un diario virtuale quali sono le principali piattaforme di condivisione online. Queste potrebbero mettere a repentaglio la costruzione fattuale-oggettiva del proprio museo, quando lo affidiamo con un click a “mecenati” che lo stanno allestendo privatamente, e forse a nostra insaputa, in server ospitati chissà dove. 
Cosa ne è, quindi, del ricordo? L’oggetto-ricordo, prima confuso e vivo, potrebbe essere spogliato della sua dimensione temporale per essere reso attuale e presente, ma soprattutto controllato e oggetto di baratto-monetizzazione. La questione sollevata da Boltanski pare essere legata alla materialità del ricordo, alla sua traccia viva. Oggi, l’internauta, che come  tutti ha diritto al proprio museo, affida invece quello-che-ha-fatto-nel tempo ad un algoritmo che seleziona, valuta e stocca i propri ricordi. La memoria, diventa così un sistema ripulito, organizzato, ordinato su base algoritmica con criteri a noi oscuri. 
Inoltre, ci si potrebbe interrogare sulla temporalità della memoria all’ora dei social media. Una fotografia scattata seduta stante per ricordo e immediatamente postata appartiene a quale categoria temporale? 
Quella della memoria-presentista che indurrebbe una paradossale archeologia del presente? Infine, quale valore per il post-ricordo-traccia nell’era dei social? La sua messa a disposizione generalizzata per milioni di utenti frettolosi andrebbe a cozzare col necessario atto di sospensione intellettuale per iniziare la “storia” della memoria. Narrazione che poi sarebbe solo accennata e superficiale perché il “ricordante” non sarebbe “ricordato” il giusto a causa del rapido flusso numerico indotto dai ricordi degli altri. 
L’internauta così correrebbe il rischio di inseguire la migliore memoria a venire, svilendola di senso. Magari di costruirsela a tavolino seguendo i parametri estetici più in voga, quelli che porterebbero più “mi piace”, non rendendosi forse conto di destinarla e destinarsi, così facendo, al reale museo dell’anonimato.  





Bibliografia

•    Christian Boltanski : l’art et la mémoire. Trasmissione radio France culture, Parigi, 2019
https://www.franceculture.fr/emissions/linvite-des-matins/christian-boltanski-lart-et-la-memoire

•    Christian Boltanski, Faire son temps – Au Centre Pompidou. Connaissances des arts – hors-série, Parigi, 2019

•    Boltanski, faire son temps. Dossier de Presse, Centre Pompidou, Parigi, 2019




Christian Boltanski, Crépuscule (2015). Archives Boltanski. Photo: Joana França




Christian Boltanski, Grandes Véroniques (1996). Courtesy Power Station of Art. Shangai. Photo: Jiang
Wenyi



Christian Boltanski, Réserve des Suisses Morts (1991). IVAM, Instituto Valenciano de Arte Moderno

venerdì 10 febbraio 2017

Georges Briata, l'existence comme prétexte de l'art

La peinture de Georges Briata s'inscrit dans «la couleur éloquente» typique du groupe des «peintres de la Réalité poétique» qui Briata a fréquenté pendant sa jeunesse à l'atelier parisien de Raymond Legueult. Les caractéristiques de leur peinture étaient «le goût pour la couleur et une figuration poétique» comme l'avait remarqué la journaliste Gisèle d'Assailly en 1949, éléments techniques et narratifs que l'on peut retrouver également chez Briata.

Mais Georges Briata va plus loin de «masses agissantes» de Legueult, il imprègne son pinceau des couleurs satures et très vives des fauvistes, en y rajoutant l'exotisme du voyage de Gauguin, son véritable Maître, les thèmes du cirque chers à Seurat et le goût du quotidien et de la ville en tant que musée à ciel ouvert, thématique chère à l'artiste italien Mimmo Rotella et à tous les Nouveaux Réalistes.

Briata qualifie «le sujet» à représenter sur la toile de «prétexte» de l'acte artistique et il rajoute que «c'est plutôt l’interprétation du sujet qui prime».

On peut ainsi distinguer deux types d’interprétations.

Dans un premier temps, il y a celle de l'artiste qui «sent» un sujet et l’interprète à sa façon, en projetant son sens dans le sujet et ensuite en le reproduisant sur toile, mais aussi, on peut parler de l'interprétation du spectateur de l’œuvre d'art.

 En effet, le verbe interpréter veut dire «donner du sens» à quelque chose et si on remonte à l'origine latine du mot, interpréter veut dire connaître entre...dans notre cas, connaître entre deux images, c'est à dire ce que l'objet est en soit et ce que l'objet est pour moi. 

Et, surtout pour les œuvres de Briata, on peut bien parler de «prétexte» pour l'interprétation du soi, car l'artiste notamment ne nous communique rien comme on peut l'entendre aujourd'hui, il s'exprime pas à travers de post sur Facebook, l'artiste, pour le dire avec Matisse, «se coupe la langue» est ainsi instaure un dialogue vif entre le créateur et son spectateur.

On pourrait se demander, «mais, les œuvres de Briata ont elles un sens»? Surtout pas! Car Briata de nous répondre: «je ne sais pas». On le sait, les artistes sont des fainéants, ils ont la flemme, mais, c'est comme cela qu'ils nous allument la flamme de la recherche de notre sens à nous. Sens qu on peut et surtout, qu'on ne doit pas, confier à quelqu'un d'autre.

Et quel meilleur prétexte que ces toiles! Elle sont des appels au sens, interprétation jamais égales à soi même, interprétations changeant comme les nuances d'un bleu! On pourrait définir le sens comme la quête du sens en soi, comme Briata est en quête de la couleur et de la composition géométrique parfaite.

En effet, la géométrie, parfois détestée par les élèves, ou au moins par moi quand je l'étais, est au cœur de son travail, et comme un architecte, il trace ses lignes et, comme un peintre de la Renaissance italienne, il construit l'harmonie de la présence de l'humain dans l'équilibre de son contexte naturel.

Accepter la recherche du sens, pas facile même pour Briata, et alors, que faire?

Curieux du monde, il quitte Marseille, il quitte la France, de son plein gré va vers ce «coup de poing dans le ventre», comme le disait Le Corbusier, qui est la ville de New York, et ici, avec peu d'argent et perdu dans les buildings à le géométrie rigoureuse, il trouve que l'espace est un prétexte moteur pour sa dynamique artistique, dès lors, Briata laisse tomber les couleurs «caramel» et il peint aux couleurs les plus éclatantes, il peint la vie qui coule rapide en quête de soi dans les boulevards de New York et il restitue sur toile même, les vibrations vitales parfois plus apaisées comme dans les jazz clubs.

Si le sujet, ou bien la vie, sont un prétexte, alors il vaut mieux les multiplier, il vaut bien mieux les mettre au bout de son pinceau.

Et Briata commence une série incroyable de voyages...Le Japon avec ses oranges, ses noirs et ses verts, La Bretagne, la Louisiane, la Sicile, la Corse, Marrakech avec leur soleil qui exalte les couleurs et leurs contrastes, puis les îles Marquises, où il semble trouver son paradis à lui.

Mais le sens échappe, il se cache derrière un bleu, un rouge, un jaune et puis s'enfuit vers une nouvelle destination, vers un nouveau paysage de rêve, vers une dernière toile à terminer.

Et là, les pinceaux à la main et chargé de toiles, Briata découvre son sens. Dans son cas, les femmes, ou mieux la femme, ou encore mieux, sa femme, celle qui sera pour toujours aussi sa muse: Vincente.

Un «miracle -comme il le dit - tombée dans sa vie d'atelier», et miracle de la présence féminine qui se renouvelle toujours dans ses toiles.

Georges Briata a pris l'existence comme prétexte et les yeux de l'autre comme source d’interprétation.

Et nos yeux, et nos vies, à travers celle de l'artiste, aujourd'hui goûtent de sa recherche en couleur et, à la fin de ce voyage, de cet échange, nous nous retrouvons dans la pensée de Camus , écrivain et homme engagé qui, comme Briata, sans cesse nous rappelle que le sens de cette vie insensée se trouve dans le sourire de notre prochain.

Aix en Provence



 Le site de Georges Briata 


Carmine Crocco e il brigantaggio meridionale, Université Aix Marseille, "Images du soldat su XIX siècle"

Carmine Crocco e il brigantaggio meridionale, mio articolo pubblicato su Italies, rivista di letteratura e storia italiana dell'Université Aix Marseille, "Images du soldat su XIX siècle"



Brigante Se More - Brigante Si Muore

mercoledì 6 luglio 2016

Presentazione del romanzo "Il mercante di quadri scomparsi" di Massimo Nava

Sabato 16 Luglio 2016, alle ore 19.30, presso il Fronte del Porto, Lungomare Marina Italiana, a Giovinazzo (Bari)



Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera e corrispondente da Parigi, presenta "Il Mercante di quadri scomparsi", suo ultimo romanzo.

Marco Caccavo e Enza Caccavo, giornalista, dialogheranno con l'Autore.

Scheda

Un misterioso e atroce delitto sconvolge il Principato di Monaco alla vigilia del Gran Premio di Formula Uno. Il commissario Bastiani, compassato poliziotto alla vigilia della pensione, risente l'adrenalina dei tempi migliori e si lancia alla caccia dell'assassino. Entra così in un mondo a lui sconosciuto di mercanti d'arte, miliardari senza scrupoli, ricchi collezionisti per scoprire che all'origine del delitto c'è la sfrenata ambizione al possesso della bellezza artistica, la conquista di un
Modigliani scomparso nel capitolo torbido dell'epoca nazista. "Il mercante dei quadri scomparsi" é un thriller che non dá tregua al lettore, con un epilogo inaspettato e sconvolgente. Massimo Nava, autore di saggi politici e romanzi storici di successo, si accosta al genere narrativo "giallo" con straordinaria efficacia, riuscendo a mescolare la rapida sceneggiatura dell'intrigo con interessanti divagazioni storiche e suggestioni letterarie.

L'autore

Massimo Nava è nato a Milano e vive a Parigi. Dal 2001 è corrispondente ed editorialista per il Corriere della Sera, dopo essere stato per molti anni inviato speciale e corrispondente di guerra, dall'Asia all'Africa, dai Balcani all'ultimo conflitto in Irak. Fra i suoi reportage più importanti, la caduta del Muro di Berlino, la riunificazione tedesca, la guerra nella ex Jugoslavia, il genocidio in Ruanda, i massacri di Timor Est, la guerra civile in Somalia, il conflitto in Irak. Ha scritto anche importanti inchieste sulla società italiana, il terrorismo degli anni di piombo, i problemi del Mezzogiorno. Ha pubblicato "Germania Germania" (Mondadori, 1990), il primo libro sulla caduta del Muro di Berlino, "Carovane d'Europa" (Rizzoli, 1992) sulle immigrazioni e la rinascita dei nazionalismi, "Kosovo c'ero anch'io" (Rizzoli, 1999) diario della guerra in Kosovo, "Milosevic, la tragedia di un popolo" (Rizzoli, 2000) biografia non autorizzata del presidente serbo, "Imputato Milosevic" (Fazi, 2002), saggio critico sul processo al Tribunale internazionale dell'Aja, "Vittime, storie di guerra sul fronte della pace", (Fazi 2005). Nel 2006 ha pubblicato per Einaudi,
"Sarkozy l'uomo di ferro", ritratto personale e politico del presidente francese. Il volume è stato pubblicato con successo anche in Francia. Da "Vittime" è stato tratto lo spettacolo teatrale "Mir Mir", in scena a Parigi. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, "La gloria è il sole dei morti" (Ponte alle Grazie). Con il poeta libanese Adonis è autore di "Polvere di Baghdad", dramma teatrale per la regia di Maurizio Scaparro, andato in scena in diversi teatri italiani e interpretato da Massimo Ranieri e Eleonora Abbagnato. Nel 2010 ha pubblicato per Rizzoli "Il garibaldino che fece il Corriere della Sera", romanzo storico sulla vita di Eugenio Torelli Viollier, fondatore del Corriere. Nel 2014 ha pubblicato "Infinito amore", la passione segreta di Napoleone, romanzo Mondadori. Nel 2015 Gobetti, una storia d'amore e sacrificio, Bompiani per le scuole. 

Contatti:


0033652627162



domenica 29 maggio 2016

Sergente Romano, una "storia sbagliata" raccontata da Marco Cardetta

Di Marco Caccavo 

1861. In un'Italia che pian piano si sta facendo, in un Sud passato dalla dominazione borbonica a quella piemontese, agisce e “si fa agire” un gruppo di grotteschi e romantici briganti, capeggiati da Pasquale Domenico Romano, il celebre “Sergente” di Gioia del Colle.

Marco Cardetta, autore del testo “Sergente Romano”, ripercorre la “storia sbagliata” di questi briganti e, in questa intervista, offre nuovi e ulteriori spunti interpretativi.

Buona lettura!

Prima di tutto, perché scrivere un romanzo storico sulla figura del Sergente Romano?

La risposta è... “perché no?”
Il brigantaggio, che io preferisco chiamare “banditismo post-unitario”, è un periodo affascinantissimo: in parecchie cose e caratteristiche simile al western americano (stessi anni, stesso periodo storico, quindi stessa tecnologia, vicende, vestiario, simile antropologia, etc.), eppure a differenza del western americano, per nulla investigato o affrontato narrativamente. O comunque molto poco, rispetto a quello. O comunque con un linguaggio narrativo forse non adatto e non vincente.
Il primo impulso è venuto da quello, che è la fame del centravanti davanti alla porta: storia fichissima, non ancora trattata da nessuno bene come dico io.
E poi da lì si sviluppano i trecento perché più personali e più universali, più intimi e più filosofici che mi portano a spendere parte di questa mia giovane e magra esistenza su ricerche su questo tema.
Di certo di quella stagione, Romano è una delle figure più affascinanti, più emblematiche, più esemplari: misterioso, fosco, grottesco, eroico e maldestro. Pieno di afflato ideale, romantico eppure così "sbagliato", così incapace di leggere il processo storico.
Prima o poi ci si renderà conto che la storia la fanno gli “sbagliati”, anche.
A rifletterci, anche Dante non aveva capito nulla del suo momento storico e fu storicamente e politicamente perdente. Risolse tutto con l'afflato all'assoluto. Anche Romano ha qualcosa di simile. Solo che non ha gli strumenti per esprimerlo. E' un cosmo imploso, come lo sono gli analfabeti che lo accompagnano.


I protagonisti del tuo libro, Romano, Ciqquagna, Trimonciello..., più che soldati legittimisti sembrano dilettanti allo sbaraglio. Le situazioni in cui si cacciano questi briganti, dal linguaggio più che colorito, sono più grottesche che "eroiche".
Perché questa scelta?

Non è una scelta. Questa è la mia visione del mondo e dell'esistenza. Non conosco eroi e non conosco vincenti. Conosco un nugolo di situazioni che sono a loro volta un coacervo di concause che si determinano tra loro senza mai esaurire in alcun modo l'evento (dato che nessun evento ed esperienza è in sé esauribile né riferibile, perché il totale non è la somma delle parti e l'analisi, come sezionamento, non conduce a nulla).
E così sono questi personaggi, che sono dei "nomi", sotto i quali scorrono fiumi di pulsioni, linguaggio, ragionamento e casualità. Questo li determina e li connette. E' una concezione che non trovo così straordinaria. Fa parte di tutto il mediterraneo fino ad Eduardo. Comico e drammatico continuamente mescolandosi. E comunque i documenti storici ci raccontano che questi banditi analfabeti erano davvero così.

Nel tuo testo, quanto c'è di storico e quanto di “romanzato”?

Nel testo c'è di storico quanto c'è di romanzato come in ogni testo, come ogni racconto, anche quello della propria esistenza, anche quello della propria biografia. Cos’è la storia? Cos’è il racconto? Cosa sono le domande? La domanda ha in sé già la risposta in bocca. Ogni figura storica, Romano poniamo, è un chiaro scuro di documenti. Basta che l’archivista che mi portava il faldone d’incartamenti, sbadato, s’è perso una carta svolazzante e avrò un ritratto piuttosto che un altro, più cattivo, più scemo, più romantico.
Ogni sguardo è una selezione arbitraria di significanti in un corpuscolo indefinito di elementi.
E per me il più grande realista è il visionario (fellinianamente).
Diciamo in generale che l'adesione alla vicenda nel Sergente Romano è pregnante e che la ricerca del documento è votata a cercare quello che anche la più bizzarra capacità immaginativa non potrebbe mai immaginare. Dunque ho immaginato il verosimile e l’inverosimile l’ho tratto dai documenti. Ma alcuni di quelli sono falsi.

Nella ricca nota al testo, a pag. 165, leggo: "Ma perché vi riconoscete voi veramente in qualcosa che si chiama Italia e nella sua unitarietà indefinita?". Qual è la tua risposta?

Perché, che cos'è l'unitarietà? La risposta è che io mi riconosco in quell’unitarietà che affoga in se stessa riconoscendo la propria molteplicità e multiformità.
Mi riconosco allora nell’Italia dei suoi confini relativi, mi riconosco nell’emersione delle acque milioni di anni fa, dalle quali per prima emerse tra le altre la Murgia, mi riconosco negli spostamenti geologici che determinarono le fratture alpine, che spezzarono i flussi di antropizzazione con le popolazioni più a nord, mi riconosco nell’acqua salata che la circonda e mi riconosco negli accordi arbitrari di cessioni territoriali.
Mi riconosco nei due mila anni di copule multietniche che mi scorrono nel sangue, mi riconosco nel mio essere albanese, figlio di ricolonizzazione del mio paese natale nel XV sec., nonché nel mio essere greco e saraceno; mi riconosco altresì in quei poveri cristi che sbarcano sulle nostre coste (o crepano in quelle acque salate che ci circondano) e che mi sono molto più “cittadini” di qualche razzista ignorante; mi riconosco nei venti e più dialetti che animano la penisola, e che in realtà sono lingue, con propria sintassi e lessico, nei quali scorrono il francese, lo spagnolo e le nostre varie dominazioni. Mi riconosco nei fiumi linguistici che fanno sì che ci si possa comprendere al di là delle nazioni e dei confini geografici, come quello che scorre dal Friuli lungo il Veneto fino al Piemonte e alla Catalunya e fa sì che la mia amica cantautrice catalana Rusó Sala si comprenda benissimo con parlanti dialettali friulani.
E mi riconosco pure in quei migranti che salvano il vecchietto dal maniaco che voleva ammazzare tutti in strada con un martello, come accadde qualche anno fa a Palermo, e per questo gesto eroico ricevono una carta verde di venti giorni, mentre un "italiano" può macchiarsi dei peggiori reati finanziari e resta benissimo nel consesso civile, ricevuto con onori in tv.
Credo in definitiva in quegli olimpici sportivi trentini che parlano più tedesco che italiano e non conoscono l'inno nazionale. In loro credo più di tutti.


Come ti spieghi il fortunato momento della saggistica "revisionistica" sul Risorgimento italiano?

Il momento in fondo non è così fortunato. E' un fiume lento che si muove da qualche anno. Ma dal punto di vista storico e antropologico c'è ancora moltissimo da fare. Quasi tutto.
Solo ora finalmente, diciamo da due-tre anni, anche il mondo accademico che da sempre ha snobbato il tema, sta iniziando ad interessarsi e a pubblicare interessanti cose sul tema.
C'è da fare molta chiarezza, gerarchizzare le fonti e la bibliografia. E c'è bisogno dell'autorevolezza e della tecnica di ricercatori anche accademici che troppo spesso sono mancati. Per non lasciare il campo a ricostruzioni faziose neoborboniche o opposte, che troppo spesso creano solo confusione, dicendo magari anche la cosa giusta ma nel modo più sbagliato, senza tecnica storica, senza citare le fonti, o interpretando forzatamente il dato.
Non c'è da revisionare chissà che. C'è solo da conoscere meglio il mondo e la propria storia, quella dell'unità d'Italia come anche altre storie e microstorie.
Con la conoscenza approfondita che ho del mio territorio ti posso dire che ci sono anche altri interi cicli storici che metonimicamente possono dirti cose sul mondo intero, lavorando su un piccolo pezzettino di mondo, e non sono ancora sfruttati.

Penso ad esempio a Federico II, esempio di pace e fratellanza, di illuminatezza, e però ancora poco divulgato, forse per la stessa enormità del personaggio.

Per saperne di più:



domenica 8 maggio 2016

Il giro del mondo in un vecchio camper del 1982, follia? No, è Il progetto Vostok100k.


Anni fa, una sera, una di quelle calde sere pugliesi, si parlava del più e del meno, di politica estera, di musica, storia, storie di guerra e giornalismo, di viaggi.
E Lorenzo, Lorenzo Scaraggi, dalla sua barba incolta tirò fuori una delle sue frasi che tanto mi hanno fatto poi riflettere: "E' nei momenti di crisi che si deve partire". Intesi la parola “crisi” come momento di rottura tra un prima e un dopo, a livello di emozioni, di desideri e di sfide. Quelle parole svelarono il mio animo, eterno irrequieto e sempre “in crisi”.
È passato del tempo da quella sera d'estate, ma intatta è rimasta la voglia di ascoltare i suoi viaggi, le sue storie.
Lorenzo, oggi, questa crisi la combatte, o la alimenta, viaggiando e raccontando.
E lo fa alla sua maniera. Alla guida di un camper del 1982, è il capitano del progetto Vostok100k.
L'obiettivo? Il giro del mondo!

Ciao Lorenzo, raccontaci un po' di te

Sono un viaggiatore, lo sono sempre stato.
Nasco come giornalista, ho studiato storia e poi la voglia di essere testimone dei fatti contemporanei mi ha portato a viaggiare, come fotoreporter, anche in posti di guerra.
Per esigenza creativa, nel corso degli anni, ho ampliato le mie competenze.
Ho iniziato anche a girare video.
Lavoro ormai da anni come fotografo e videomaker, ma adesso non riesco più a darmi una categoria, a trovare una collocazione tradizionale; per questo, ormai, mi considero un viaggiatore, un narratore di luoghi e di incontri e per questo a 40 anni sto mettendo a frutto tutto quello che so fare, che ho imparato a fare nel corso degli ultimi 20: viaggiare e raccontare.

Il tuo progetto in dieci righe?

Sono ormai 3 anni che lavoro al progetto Vostok100k. Il progetto era nato con un mio amico, Peppino. Eravamo in giro per il Sahara quando abbiamo deciso di comprare un vecchio camper e di viaggiare. Ecco che tornati in Italia siamo passati all’azione. Abbiamo trovato un vecchio Sven Hedin, Volkswagen e l’abbiamo ribattezzato Vostok, in onore della prima missione dell’uomo nello spazio. L’idea era quella di fare il giro del mondo, ma a volte gli equipaggi si perdono, prendono strade differenti, così sono rimasto solo e ho continuato a viaggiare.
Adesso ho deciso di iniziare a realizzare quel giro del mondo tanto sognato.
Inizierò dall’Europa con il progetto “Borders”, un viaggio di 20mila km lungo i confini dell’Europa.
Fare il periplo dell’Europa per girare un documentario, raccontare sui social e realizzare un reportage andando alla ricerca di storie di confine.

Il tuo itinerario?

Partirò dall’Italia e andrò verso ovest, costeggiando il mare lungo Francia, Spagna, Portogallo e poi verso est lungo la costa fino all’Estonia, dunque costeggiando l’ex Unione Sovietica fino in Turchia, poi Grecia e Balcani per tornare a casa.

Raccontare storie di confine, una crepa nei muri dell'indifferenza?

Viviamo in tempi in cui la gente sta tornando ad avere paura dei confini.
Per molti i confini vanno fortificati, vanno corazzati, vanno guarniti di muri e filo spinato.
Sono un uomo Pugliese, orgoglioso figlio del Mediterraneo, noi pugliesi siamo bastardi per eccellenza, dalla mia terra sono passati Greci, Albanesi, Francesi, Spagnoli, Africani nel corso dei millenni.
Oggi qualcuno dice che i mari vanno controllati, vanno pattugliati e questo va contro la natura di quello che noi siamo.
L’Italia ha la forma di un ponte proteso verso il mediterraneo, la forma di un molo e un molo serve per accogliere e non per respingere.
Voglio ricordare alla gente cosa significhi confine. Un confine deve essere una linea di congiunzione e non una crepa.
Da questo parte il mio concetto di confine.
Una salina racconta la storia di un confine naturale, la musica popolare, la cucina etnica, i porti delle grandi città, fino ad arrivare ai confini dove oggi si sta consumando la tragedia umanitaria più grave della storia dell’Europa contemporanea: i confini con i profughi, con chi proviene dalle guerre, i confini con la Macedonia, ma anche l’Egeo. Questo è il significato di confine che voglio approfondire.

Tempo fa mi dicesti: "E' nei momenti di crisi che si deve partire".
Puoi oggi spiegarci meglio il senso di questa tua frase?

Te l’ho detto qualche anno fa ma credo che oggi valga ancora di più.
Ho sempre inteso il viaggio come arricchimento, come ricerca, non solo personale, della verità, dei fatti, della cronaca, della realtà. Partire per vedere da vicino, per crescere, per poter riferire quello che accade.
Un tempo i viaggiatori erano sacri perché portavano notizie nuove di paese in paese.
Questo è il mio senso del partire.
E poi, sì, viviamo decisamente in un periodo di crisi, è in corso una crisi totale dei valori dell’Europa. Questo è sotto gli occhi di tutti. Tutto è messo in discussione, tutto sta cambiando, non evolvendosi,  ma accartocciandosi su sé stesso.

Dopo questo ennesimo viaggio, cos'altro bolle in pentola?

Girerò un documentario e vedrò cosa farne. E poi non lo so, ma sai, per un viaggiatore la partenza e il ritorno sono solo delle parentesi che racchiudono un milione di alibi che hanno un solo scopo: ripartire.

Perché è importante contribuire economicamente al tuo viaggio?

Ho sempre considerato, vissuto i social nell'accezione più trasversale e democratica possibile. Sulla mia pagina non solo documento viaggi, ma vado alla ricerca di consigli. Considero il termine condivisione quanto di più democratico esista nella terminologia che usiamo tutti i giorni.
Presto lancerò sulla mia pagina un appello a consigliarmi storie di confine, cosicché io possa andare nei luoghi consigliati e documentare, raccogliere le testimonianze.
Finanziare questo viaggio vuol dire prendere parte a un grande progetto.
Prendere parte in questo progetto con una donazione vuol dire aiutarmi nella costruzione di un progetto che racconti i confini, senza filtri (a parte quelli fisiologicamente esistenti nella visione relativa delle cose, naturalmente), senza troppe cerimonie, con un linguaggio semplice, con gli occhi di chi è curioso da sempre di vedere da vicino, di fotografare, di documentare se i confini sono realmente presenti nella testa piuttosto che nel cuore, nella vera essenza delle persone, dei popoli, della politica, dell’uomo.
Diventare produttori del viaggio, del documentario, del reportage che tutti vorrebbero realizzare.
Il progetto “borders” è un viaggio nel viaggio dell’anima.

Per saperne di più: pagina Facebook del Vostok100k