Al
netto di ogni considerazione di ordine scientifico dinanzi le quali
si dovrebbe sospendere il giudizio e attenersi alle direttive
ministeriali, non è possibile negare che la paura scaturita dalla rapida diffusione del contagio ha messo radici nell’intimo dell’immaginario
collettivo. Diffidenza, esagerazione e faciloneria, spesso veicolate
da media più interessati, loro, ad essere più virali del virus
stesso, arrivano al parossismo quando ci si rende conto che,
alla fine, non si sa cosa pensare di questo virus. E al facile
allarmismo o anche all’eguale facile minimizzazione si sostituisce
un vero e proprio imbarazzo del giudizio.
Siamo
realmente agli inizi di una pandemia che mette in dubbio la nuova
divisione del lavoro incentrata sulla mondializzazione, con tutto
quello che ne consegue, o siamo semplicemente dinanzi a un’influenza
un po’ più aggressiva?
La
questione tocca realmente un nodo fondamentale della democrazia: “il
conoscere per deliberare” di einaudiana memoria.
Come
si sa, il conoscere è conseguente al giusto informare. Nelle
democrazie mature la verità dell’informazione è data dalla
pluralità e dall’assenza della censura di Stato. Piena libertà
d’espressione che in Italia è garantita ed esercitata. Anche se con sfumature più o meno marcate, una rapida scorsa ai principali
organi di stampa non permette di distinguere una reale pluralità di
opinioni. Effettivamente, i giornali sembrano tutti ripetere la
stessa cosa: paura e pandemia.
Le
edizioni online dei principali quotidiani nazionali si affrettano a
fare la conta dei decessi (per ora 6) e dei casi sospetti (per ora
229) in link condivisi senza sosta da milioni di account in una
logica che ricorda il conta punti dei videogame. Ci si attende che il
numero cresca...quasi che l’aumentare del numero di eventuali
contagiati rassicuri chi non sa cosa fare o pensare. Se aumentano i
decessi e i pazienti sotto osservazione, allora qualcosa c’è.
Certo, che qualcosa ci sia è chiaro, ma in che modo questo qualcosa,
questa idea, entra nel nostro quotidiano?
Al
di là delle cifre, seppur gravi, inerenti decessi e contagiati, il
virus è entrato nel nostro mondo perché fa parlare di sé e fa
parlare di noi. È diventato l’argomento del momento e ci dà la
possibilità di essere le persone del momento, come qualche giorno fa
lo era la III Guerra mondiale scatenata dalla probabilità (pari a 0)
di un attacco dell’Iran agli USA, come ancor prima lo era la
probabile (ancora pari a 0) guerra tra USA e Corea del Nord. Insomma,
il Coronavirus ha infettato il nostro comunicare per hashtag: dire
qualsiasi cosa purché la si dica, purché se ne parli. Il dire,
quindi, come forma di appartenenza ad un gruppo, per condividerne le
angosce e rassicurarsi. Soprattutto quando il gruppo vittima è ben
distinto dal gruppo colpevole avendo questo gli occhi a mandorla.
Interessante
pare l’estrema fragilità esistenziale dell’uomo post-moderno che
viene continuamente rassicurato fin dalla nascita perché tutto è
sotto controllo in una società “perfetta” e “creata per noi”.
E invece, in questo stesso mondo, un virus venuto da lontano, da un
paese “sporco”, si incunea nella nostra sicurezza facendo
riaffiorare la paura della morte improvvisa e inspiegabile. Facendo
riemergere il mistero della vita che nasce per caso e che muore nella
stessa maniera. Quasi che le pandemie siano veicoli di filosofia per
le masse. Quasi che “la peste” riporti alla luce domande
esistenziali sotterrate a colpi di acquisti, di divertimento take
away e di finzioni societali ed economiche costruite per rassicurare.
Anche se sotto forma di fake news e di allarmismi, la domanda che
oggi si impone pare essere: “quindi si muore?”, “è possibile
in quest’epoca perfetta morire?”. “E se si muore, come si
muore?”.
Il
morire, o almeno il morire in questa maniera, diventa una cosa
assurda perché non prevista. O almeno non prevista dalla pubblicità
o dall’algoritmo che scruta e comanda le nostre scelte da vivi.
E
se il Coronavirus fosse un’occasione di riflessione sulla vita che
si sostanzia nella possibilità di contrarre una malattia
eventualmente mortale?
Prendere
come possibilità la morte, assurda e violenta, forse sarebbe una
possibilità di un vivere meno pre-ordinato, di quel vivere per
morire base di partenza di quasi tutta la filosofia. Perché,
effettivamente, oggi tendiamo a scartare la morte come eventualità
che pure è fondativa. Non si deve più morire per vivere. L’Io
deve essere sempre e comunque vivente e per sopravvivere deve
consumare, seguire logiche societali, di natura economica, escludendo
i tempi morti, la riflessione, il prendersi il tempo per sé,
escludendo le distanze perché quel che non si vede è morto, non
esiste. Bisogna comunicare per non morire, si deve postare,
fotografare, scrivere, parlare e straparlare per dire agli altri che
si è vivi. Una sorta di mantenimento in vita tramite la connessione
ad altri cadaveri che non vogliono morire per vivere. Come se la vita
fosse un susseguirsi di azioni meccaniche pre-inquadrate in un
percorso circolare dove la fine non esiste o al massimo è un profilo
facebook dove anche da morto continuo a essere taggato e, mio
malgrado, continuamente riportato in vita. Senza chiedermi il
permesso. Senza lasciarmi morire in pace.
Inoltre,
il Coronavirus sembra riassumere quello che, in una certa maniera,
alcuni politici aspettavano: un distruggere per ripartire in un certo
modo, un distruggere per poi distinguere. Effettivamente, per coloro
che vogliono distruggere il mondo globale il Coronavirus è un aiuto
insperato. Chiudere (le frontiere), bloccare (ognuno a casa propria),
separare (i buoni dai cattivi), confinarsi (in casa dinanzi la
televisione), tutti verbi che sembravano appartenere al secolo scorso
adesso hanno un motivo valido per riaffiorare perché “ne va della
nostra vita”, “del nostro avvenire”, “ne va della
sopravvivenza del gruppo” (anche whatsapp o facebook).
E
l’idea che chiunque possa essere un eventuale untore è anche una
manna dal cielo per coloro che spingono per la totale
de-umanizzazione delle relazioni a favore dell’esclusivo rapporto
col virtuale. A dire il vero, il Coronavirus è anche il virus
perfetto per la post-modernità della new economy perché privilegia
le relazioni tra uomo e macchina (come si evince dal boom degli
acquisti online di questi giorni) rendendo quindi inutile
l’interazione tra esseri viventi. Una eventuale epidemia, quindi,
legittimerebbe le frontiere tra comunità, ma anche tra membri dello
stesso gruppo perché il pericolo è un virus che non si vede e non
un tratto etnico o comportamentale distintivo.
Quest’isteria
generalizzata e la diffidenza nei confronti del prossimo sono forse
le naturali conseguenze del far parte di una società che, da un
lato, ci promette una felicità da ostentare su internet e che,
dall’altro, ci rende angosciati e, di fatto, soli.
Uno
scatto di umanità collettiva, di fiducia, di ottimismo, malgrado le
epidemie e le differenze, sarebbe davvero una risposta efficace al
virus e un bel ripartire perché i virus passano, il restare umani
no.
Aix-en-Provence,
24 Febbraio 2020