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domenica 25 marzo 2012

Enrico Mastropierro, tra censura e sogno di realtà


Ospite di Blag! é Enrico Mastropierro, fotografo che ha partecipato alla II Edizione di Terra di Sud, al quale abbiamo posto alcune domande circa il suo fare fotografia.

Credo che gli scatti di Enrico siano prova e traccia della possibile metamorfosi del naturale con gli strumenti tecnici di cui l'uomo contemporaneo dispone.
Un decalogo per immagini del mondo a venire?
Se definissi la fotografia di Mastropierro “ecologica”, tratterei i suoi scatti come un'icona alla quale tendere per costruire il mondo di domani.
Ma, se lui stesso ne parla in termini di “capacità euristica non troppo lontana da quella del sogno o del lapsus -essendo- verità particolari, verità dell’inconscio e tali rimangono”, potremmo intendere il suo fotografare come un ricordare , un riappropriarsi del sogno che, da sempre, la censura freudiana spinge verso l'oblio.


Cosa é fare fotografia per Enrico Mastropierro?

Rispondere alla domanda che cos’è la fotografia è un po’ come rispondere alla domanda che cos’è la filosofia e francamente penso sia una domanda cui si possa rispondere in “tarda età”. Penso però si possano individuare una serie di pratiche, di gesti, di flussi estetici che permettano di riconoscere “il fatto fotografico”.

Qual é il valore dell’onirico e del surreale come percezione del reale?

In questo periodo sono molto affascinato dalla sobrietà e dalla semplicità delle foto di Luigi Ghirri. Anche se spesso mi si fa notare che alcune mie foto potrebbero ricordare il modo di raccontare il paesaggio proprio degli impressionisti. Certo non nascondo una certa diffidenza nei confronti di una grammatica che in un certo senso è già “troppo storica”.
Una rappresentazione dello spazio che sembra essere idilliaca può facilmente far pensare a un tentativo migliorativo della rappresentazione dello spazio, oppure ad un tentativo conciliatore di una sovrabbondanza di segni in conflitto, ma quando scatto non parto con quell’idea.
Probabilmente il pittorialismo riferisce di una sorta di pigrizia della rappresentazione e non mi entusiasma granché. Dico questo non perché pensi alla pittura come una forma degradata o degradante della rappresentazione; però condivido l’opinione secondo la quale la fotografia non abbia bisogno di fare il verso a un’altra forma artistica. Al tempo stesso non si può ignorare come le altre forme di espressione possano indicare delle vie di fuga, dei processi trasformativi interni alla grammatica della disciplina in questione. Personalmente ho difficoltà ad immaginare la fotografia senza la pittura, il cinema, la letteratura, l’architettura o la musica: di solito quando scatto ho sempre un disco che mi suona in testa. Al momento questo modo di fare fotografia mi permette una forma di rielaborazione delle tensioni interne; un ruolo decisivo è dato dall’essere cresciuto con una grande e continua disponibilità di immagini classiche e della modernità. Provo a spiegarmi: mi piace pensare alla fotografia come fosse una moltiplicazione dello spazio, una rottura tra lo spazio interno e quello esterno. Così elaboro elementi del vissuto personale in una proiezione verso lo spazio esterno: non si tratta di uno spazio fisico, né di una riproduzione della realtà.

L’assenza di soggetti umani e una limitata presenza dei manufatti deriva dall’esigenza di non invocare l’identità, è un tentativo di fotografare i flussi, con un occhio rivolto alla crisi del soggetto.
Il surrealismo parlava di una dimensione della rappresentazione della realtà suppletiva, quasi più reale della realtà stessa, dando una valenza sovradimensionata e idealista al gesto artistico. La fotografia può avere, ha una valenza e una sua capacità euristica non troppo lontana da quella del sogno o del lapsus: sono verità particolari, verità dell’inconscio e tali rimangono. Credo che la loro potenza non vada oltre questa soglia della rappresentazione, perché il “vero” mondo è un altro. Questo non deve esimerci dalla valutazione che la motilità dell'inconscio sia latrice ed espressione di una serie di forze politiche che contribuiscono a forgiarla.
 L’immagine può comunicare un’opacità, una zona d’ombra, uno spazio nel quale la nostra critica dell’attualità non può venir meno. Quelle zone d’ombra del pittorialismo non vogliono essere una forma di ripiegamento su stessa della rappresentazione, quanto un tentativo di lasciar fluire delle vie di fuga.
Ovviamente la fotografia di reportage o di ritratto ha una potenza “politica”, una forza estremamente più evidente e incisiva di quanto ne abbiano le mie foto.
Vorrei poter fare fotografie diverse, ma al momento non mi riesce.

La tua é una natura sognante e deformata dal ritocco fotografico...

Un po’ la post-produzione porta con sé un rapporto problematico con la realtà, un tentativo di trovare una sorta di locazione che eccede l’identità fisica del posto: a me non interessa descrivere questa o quella contrada. Inoltre la post produzione ha una sua dinamica: è un intervento che avviene solitamente dopo un po’ di tempo rispetto allo scatto. Questo lasso di tempo dà un valore “prospettico” all’immagine, dà ulteriori tracce interpretative a chi vede la fotografia.

Marco Caccavo

Per chi volesse conoscere meglio Enrico:
















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