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domenica 29 maggio 2016

Sergente Romano, una "storia sbagliata" raccontata da Marco Cardetta

Di Marco Caccavo 

1861. In un'Italia che pian piano si sta facendo, in un Sud passato dalla dominazione borbonica a quella piemontese, agisce e “si fa agire” un gruppo di grotteschi e romantici briganti, capeggiati da Pasquale Domenico Romano, il celebre “Sergente” di Gioia del Colle.

Marco Cardetta, autore del testo “Sergente Romano”, ripercorre la “storia sbagliata” di questi briganti e, in questa intervista, offre nuovi e ulteriori spunti interpretativi.

Buona lettura!

Prima di tutto, perché scrivere un romanzo storico sulla figura del Sergente Romano?

La risposta è... “perché no?”
Il brigantaggio, che io preferisco chiamare “banditismo post-unitario”, è un periodo affascinantissimo: in parecchie cose e caratteristiche simile al western americano (stessi anni, stesso periodo storico, quindi stessa tecnologia, vicende, vestiario, simile antropologia, etc.), eppure a differenza del western americano, per nulla investigato o affrontato narrativamente. O comunque molto poco, rispetto a quello. O comunque con un linguaggio narrativo forse non adatto e non vincente.
Il primo impulso è venuto da quello, che è la fame del centravanti davanti alla porta: storia fichissima, non ancora trattata da nessuno bene come dico io.
E poi da lì si sviluppano i trecento perché più personali e più universali, più intimi e più filosofici che mi portano a spendere parte di questa mia giovane e magra esistenza su ricerche su questo tema.
Di certo di quella stagione, Romano è una delle figure più affascinanti, più emblematiche, più esemplari: misterioso, fosco, grottesco, eroico e maldestro. Pieno di afflato ideale, romantico eppure così "sbagliato", così incapace di leggere il processo storico.
Prima o poi ci si renderà conto che la storia la fanno gli “sbagliati”, anche.
A rifletterci, anche Dante non aveva capito nulla del suo momento storico e fu storicamente e politicamente perdente. Risolse tutto con l'afflato all'assoluto. Anche Romano ha qualcosa di simile. Solo che non ha gli strumenti per esprimerlo. E' un cosmo imploso, come lo sono gli analfabeti che lo accompagnano.


I protagonisti del tuo libro, Romano, Ciqquagna, Trimonciello..., più che soldati legittimisti sembrano dilettanti allo sbaraglio. Le situazioni in cui si cacciano questi briganti, dal linguaggio più che colorito, sono più grottesche che "eroiche".
Perché questa scelta?

Non è una scelta. Questa è la mia visione del mondo e dell'esistenza. Non conosco eroi e non conosco vincenti. Conosco un nugolo di situazioni che sono a loro volta un coacervo di concause che si determinano tra loro senza mai esaurire in alcun modo l'evento (dato che nessun evento ed esperienza è in sé esauribile né riferibile, perché il totale non è la somma delle parti e l'analisi, come sezionamento, non conduce a nulla).
E così sono questi personaggi, che sono dei "nomi", sotto i quali scorrono fiumi di pulsioni, linguaggio, ragionamento e casualità. Questo li determina e li connette. E' una concezione che non trovo così straordinaria. Fa parte di tutto il mediterraneo fino ad Eduardo. Comico e drammatico continuamente mescolandosi. E comunque i documenti storici ci raccontano che questi banditi analfabeti erano davvero così.

Nel tuo testo, quanto c'è di storico e quanto di “romanzato”?

Nel testo c'è di storico quanto c'è di romanzato come in ogni testo, come ogni racconto, anche quello della propria esistenza, anche quello della propria biografia. Cos’è la storia? Cos’è il racconto? Cosa sono le domande? La domanda ha in sé già la risposta in bocca. Ogni figura storica, Romano poniamo, è un chiaro scuro di documenti. Basta che l’archivista che mi portava il faldone d’incartamenti, sbadato, s’è perso una carta svolazzante e avrò un ritratto piuttosto che un altro, più cattivo, più scemo, più romantico.
Ogni sguardo è una selezione arbitraria di significanti in un corpuscolo indefinito di elementi.
E per me il più grande realista è il visionario (fellinianamente).
Diciamo in generale che l'adesione alla vicenda nel Sergente Romano è pregnante e che la ricerca del documento è votata a cercare quello che anche la più bizzarra capacità immaginativa non potrebbe mai immaginare. Dunque ho immaginato il verosimile e l’inverosimile l’ho tratto dai documenti. Ma alcuni di quelli sono falsi.

Nella ricca nota al testo, a pag. 165, leggo: "Ma perché vi riconoscete voi veramente in qualcosa che si chiama Italia e nella sua unitarietà indefinita?". Qual è la tua risposta?

Perché, che cos'è l'unitarietà? La risposta è che io mi riconosco in quell’unitarietà che affoga in se stessa riconoscendo la propria molteplicità e multiformità.
Mi riconosco allora nell’Italia dei suoi confini relativi, mi riconosco nell’emersione delle acque milioni di anni fa, dalle quali per prima emerse tra le altre la Murgia, mi riconosco negli spostamenti geologici che determinarono le fratture alpine, che spezzarono i flussi di antropizzazione con le popolazioni più a nord, mi riconosco nell’acqua salata che la circonda e mi riconosco negli accordi arbitrari di cessioni territoriali.
Mi riconosco nei due mila anni di copule multietniche che mi scorrono nel sangue, mi riconosco nel mio essere albanese, figlio di ricolonizzazione del mio paese natale nel XV sec., nonché nel mio essere greco e saraceno; mi riconosco altresì in quei poveri cristi che sbarcano sulle nostre coste (o crepano in quelle acque salate che ci circondano) e che mi sono molto più “cittadini” di qualche razzista ignorante; mi riconosco nei venti e più dialetti che animano la penisola, e che in realtà sono lingue, con propria sintassi e lessico, nei quali scorrono il francese, lo spagnolo e le nostre varie dominazioni. Mi riconosco nei fiumi linguistici che fanno sì che ci si possa comprendere al di là delle nazioni e dei confini geografici, come quello che scorre dal Friuli lungo il Veneto fino al Piemonte e alla Catalunya e fa sì che la mia amica cantautrice catalana Rusó Sala si comprenda benissimo con parlanti dialettali friulani.
E mi riconosco pure in quei migranti che salvano il vecchietto dal maniaco che voleva ammazzare tutti in strada con un martello, come accadde qualche anno fa a Palermo, e per questo gesto eroico ricevono una carta verde di venti giorni, mentre un "italiano" può macchiarsi dei peggiori reati finanziari e resta benissimo nel consesso civile, ricevuto con onori in tv.
Credo in definitiva in quegli olimpici sportivi trentini che parlano più tedesco che italiano e non conoscono l'inno nazionale. In loro credo più di tutti.


Come ti spieghi il fortunato momento della saggistica "revisionistica" sul Risorgimento italiano?

Il momento in fondo non è così fortunato. E' un fiume lento che si muove da qualche anno. Ma dal punto di vista storico e antropologico c'è ancora moltissimo da fare. Quasi tutto.
Solo ora finalmente, diciamo da due-tre anni, anche il mondo accademico che da sempre ha snobbato il tema, sta iniziando ad interessarsi e a pubblicare interessanti cose sul tema.
C'è da fare molta chiarezza, gerarchizzare le fonti e la bibliografia. E c'è bisogno dell'autorevolezza e della tecnica di ricercatori anche accademici che troppo spesso sono mancati. Per non lasciare il campo a ricostruzioni faziose neoborboniche o opposte, che troppo spesso creano solo confusione, dicendo magari anche la cosa giusta ma nel modo più sbagliato, senza tecnica storica, senza citare le fonti, o interpretando forzatamente il dato.
Non c'è da revisionare chissà che. C'è solo da conoscere meglio il mondo e la propria storia, quella dell'unità d'Italia come anche altre storie e microstorie.
Con la conoscenza approfondita che ho del mio territorio ti posso dire che ci sono anche altri interi cicli storici che metonimicamente possono dirti cose sul mondo intero, lavorando su un piccolo pezzettino di mondo, e non sono ancora sfruttati.

Penso ad esempio a Federico II, esempio di pace e fratellanza, di illuminatezza, e però ancora poco divulgato, forse per la stessa enormità del personaggio.

Per saperne di più:



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