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lunedì 24 febbraio 2020

Coronavirus, 2 o 3 cose che ho imparato di te


Al netto di ogni considerazione di ordine scientifico dinanzi le quali si dovrebbe sospendere il giudizio e attenersi alle direttive ministeriali, non è possibile negare che la paura scaturita dalla rapida diffusione del contagio ha messo radici nell’intimo dell’immaginario collettivo. Diffidenza, esagerazione e faciloneria, spesso veicolate da media più interessati, loro, ad essere più virali del virus stesso, arrivano al parossismo quando ci si rende conto che, alla fine, non si sa cosa pensare di questo virus. E al facile allarmismo o anche all’eguale facile minimizzazione si sostituisce un vero e proprio imbarazzo del giudizio.
Siamo realmente agli inizi di una pandemia che mette in dubbio la nuova divisione del lavoro incentrata sulla mondializzazione, con tutto quello che ne consegue, o siamo semplicemente dinanzi a un’influenza un po’ più aggressiva?
La questione tocca realmente un nodo fondamentale della democrazia: “il conoscere per deliberare” di einaudiana memoria.
Come si sa, il conoscere è conseguente al giusto informare. Nelle democrazie mature la verità dell’informazione è data dalla pluralità e dall’assenza della censura di Stato. Piena libertà d’espressione che in Italia è garantita ed esercitata. Anche se con sfumature più o meno marcate, una rapida scorsa ai principali organi di stampa non permette di distinguere una reale pluralità di opinioni. Effettivamente, i giornali sembrano tutti ripetere la stessa cosa: paura e pandemia.
Le edizioni online dei principali quotidiani nazionali si affrettano a fare la conta dei decessi (per ora 6) e dei casi sospetti (per ora 229) in link condivisi senza sosta da milioni di account in una logica che ricorda il conta punti dei videogame. Ci si attende che il numero cresca...quasi che l’aumentare del numero di eventuali contagiati rassicuri chi non sa cosa fare o pensare. Se aumentano i decessi e i pazienti sotto osservazione, allora qualcosa c’è. Certo, che qualcosa ci sia è chiaro, ma in che modo questo qualcosa, questa idea, entra nel nostro quotidiano?
Al di là delle cifre, seppur gravi, inerenti decessi e contagiati, il virus è entrato nel nostro mondo perché fa parlare di sé e fa parlare di noi. È diventato l’argomento del momento e ci dà la possibilità di essere le persone del momento, come qualche giorno fa lo era la III Guerra mondiale scatenata dalla probabilità (pari a 0) di un attacco dell’Iran agli USA, come ancor prima lo era la probabile (ancora pari a 0) guerra tra USA e Corea del Nord. Insomma, il Coronavirus ha infettato il nostro comunicare per hashtag: dire qualsiasi cosa purché la si dica, purché se ne parli. Il dire, quindi, come forma di appartenenza ad un gruppo, per condividerne le angosce e rassicurarsi. Soprattutto quando il gruppo vittima è ben distinto dal gruppo colpevole avendo questo gli occhi a mandorla.
Interessante pare l’estrema fragilità esistenziale dell’uomo post-moderno che viene continuamente rassicurato fin dalla nascita perché tutto è sotto controllo in una società “perfetta” e “creata per noi”. E invece, in questo stesso mondo, un virus venuto da lontano, da un paese “sporco”, si incunea nella nostra sicurezza facendo riaffiorare la paura della morte improvvisa e inspiegabile. Facendo riemergere il mistero della vita che nasce per caso e che muore nella stessa maniera. Quasi che le pandemie siano veicoli di filosofia per le masse. Quasi che “la peste” riporti alla luce domande esistenziali sotterrate a colpi di acquisti, di divertimento take away e di finzioni societali ed economiche costruite per rassicurare. Anche se sotto forma di fake news e di allarmismi, la domanda che oggi si impone pare essere: “quindi si muore?”, “è possibile in quest’epoca perfetta morire?”. “E se si muore, come si muore?”.
Il morire, o almeno il morire in questa maniera, diventa una cosa assurda perché non prevista. O almeno non prevista dalla pubblicità o dall’algoritmo che scruta e comanda le nostre scelte da vivi.
E se il Coronavirus fosse un’occasione di riflessione sulla vita che si sostanzia nella possibilità di contrarre una malattia eventualmente mortale?
Prendere come possibilità la morte, assurda e violenta, forse sarebbe una possibilità di un vivere meno pre-ordinato, di quel vivere per morire base di partenza di quasi tutta la filosofia. Perché, effettivamente, oggi tendiamo a scartare la morte come eventualità che pure è fondativa. Non si deve più morire per vivere. L’Io deve essere sempre e comunque vivente e per sopravvivere deve consumare, seguire logiche societali, di natura economica, escludendo i tempi morti, la riflessione, il prendersi il tempo per sé, escludendo le distanze perché quel che non si vede è morto, non esiste. Bisogna comunicare per non morire, si deve postare, fotografare, scrivere, parlare e straparlare per dire agli altri che si è vivi. Una sorta di mantenimento in vita tramite la connessione ad altri cadaveri che non vogliono morire per vivere. Come se la vita fosse un susseguirsi di azioni meccaniche pre-inquadrate in un percorso circolare dove la fine non esiste o al massimo è un profilo facebook dove anche da morto continuo a essere taggato e, mio malgrado, continuamente riportato in vita. Senza chiedermi il permesso. Senza lasciarmi morire in pace.
Inoltre, il Coronavirus sembra riassumere quello che, in una certa maniera, alcuni politici aspettavano: un distruggere per ripartire in un certo modo, un distruggere per poi distinguere. Effettivamente, per coloro che vogliono distruggere il mondo globale il Coronavirus è un aiuto insperato. Chiudere (le frontiere), bloccare (ognuno a casa propria), separare (i buoni dai cattivi), confinarsi (in casa dinanzi la televisione), tutti verbi che sembravano appartenere al secolo scorso adesso hanno un motivo valido per riaffiorare perché “ne va della nostra vita”, “del nostro avvenire”, “ne va della sopravvivenza del gruppo” (anche whatsapp o facebook).
E l’idea che chiunque possa essere un eventuale untore è anche una manna dal cielo per coloro che spingono per la totale de-umanizzazione delle relazioni a favore dell’esclusivo rapporto col virtuale. A dire il vero, il Coronavirus è anche il virus perfetto per la post-modernità della new economy perché privilegia le relazioni tra uomo e macchina (come si evince dal boom degli acquisti online di questi giorni) rendendo quindi inutile l’interazione tra esseri viventi. Una eventuale epidemia, quindi, legittimerebbe le frontiere tra comunità, ma anche tra membri dello stesso gruppo perché il pericolo è un virus che non si vede e non un tratto etnico o comportamentale distintivo.
Quest’isteria generalizzata e la diffidenza nei confronti del prossimo sono forse le naturali conseguenze del far parte di una società che, da un lato, ci promette una felicità da ostentare su internet e che, dall’altro, ci rende angosciati e, di fatto, soli.
Uno scatto di umanità collettiva, di fiducia, di ottimismo, malgrado le epidemie e le differenze, sarebbe davvero una risposta efficace al virus e un bel ripartire perché i virus passano, il restare umani no.



Aix-en-Provence, 24 Febbraio 2020




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