Sull'onda del
terrorismo internazionale che ha colpito il cuore dell'Europa,
ritorna la vexata quaestio sulla laicità della scuola
italiana, soprattutto con l'avvicinarsi del Natale, festa importante,
ma, ricordiamocelo, non di tutti.
La scuola è
uno spazio pubblico e come tale deve essere laico. Non si dovrebbero
esporre dei segni di natura religiosa, al pari di ogni altro simbolo
(come quelli di natura politica, ad esempio), che potrebbero fare
proselitismo. L'obiettivo della scuola è lo sviluppo armonioso e autonomo
dello studente, anche per quanto riguarda la scelta di confessione o partito
politico. Inoltre, tali segni potrebbero indurlo a una presa di
distanze dal Pubblico perché avvertito come diverso, avverso.
Immaginiamo
uno studente di cultura (anche religiosa) differente. Entrare in
un'aula dove è presente il crocifisso, lo mette già in una
situazione di esclusione sociale accompagnata da un sentimento di
colpa, in virtù della sua presunta diversità. Uno dei valori portanti della scuola è, come si sa, la neutralità riguardo le diversità di natura
sociale in nome dell'eguaglianza di tutti i cittadini ( e,
permettetemi, i minorenni sono più uguali degli altri). Certo,
ognuno ha le proprie tradizioni e la propria cultura. Ma la scuola
non è luogo deputato alla confusione tra il privato e il pubblico,
tra fede intima e manifestazione della stessa. L'unica religione (o
meglio ideale) è quella Repubblicana, di Stato, fatta di inclusione
e basata sul principio di uguaglianza. Soprattutto in questo periodo,
nel quale delicati sono i rapporti tra civiltà e tradizioni diverse,
proporre quella che può essere avvertita come differenza di Stato
non è la migliore delle strategie da adottare in vista della pace
sociale. Se io tolgo il crocifisso in nome dell'ideale di uno Stato
laico, posso anche chiedere uno sforzo di laicità a coloro che
oppongono con forza altre tradizioni. E lo Stato è il garante di
questa neutralità.
Chiedere un
passo indietro a coloro che vorrebbero imporre « la
tradizione », vorrebbe dire farne due o tre in avanti verso
una società multiculturale, dove di tradizionale ci sarebbe solo
l'uguaglianza.
Non si
dovrebbe imporre il presepe con un atto di forza perché « è la
nostra tradizione », questo implica una gerarchizzazione delle
culture tra cittadini italiani (e non). E questo non è ammissibile.
Meglio
sarebbe, invece, approfittare di questa consuetudine per una
sequenza didattica sulle differenze culturali e religiose. Non
imporre il presepe, ma spiegare a tutta la classe cosa vuol dire fare
il presepe. Insomma, a scuola, si dovrebbe far vivere la tradizione non come un
dogma, ma come una pista pedagogica per permettere il dibattito tra
alunni che, in classe e per lo Stato, sono tutti uguali. E, in
occasione di feste religiose di altre confessioni, si potrebbe fare
lo stesso.
Spiegare,
argomentare, parlare e, soprattutto, per noi insegnanti, ascoltare.
Marco Caccavo
Facebook: Marco Caccavo
Twitter: @MarcoCaccavo
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